Fuerteventura è il quinto capitolo del mio viaggio alle Canarie. Anche in questo caso, come per El Teide, non ci sono fotografie che possano rendere davvero l’idea dei luoghi. E’ solo dopo che ci si è fatti tormentare dal vento, aver calpestato le immense distese di spiagge e deserti (che a volte si confondono) o girovagato per le tortuose strade interne che si può capire – una volta davanti alle immagini, ai colori indicibile dell’Atlantico – cosa davvero abbiamo visto.
Capitolo 5 – Fuerteventura, calma e furore
Il racconto di questo viaggio è solo un lungo filo che si muove sul crinale dello sguardo, in bilico tra memoria e immaginazione. E ci fa riscoprire mondi inesplorati, come messaggi subliminali, inavvertitamente raccolti lungo la strada.
Alla Punta de Jandia trovi i cimeli del mare attaccati alle baracche, trofei che dopo giorni e giorni di abbandono al mare riporti a terra. Vincitore o sconfitto non importa, basta averlo sfidato il mare, avergli rubato i colori indicibili e restituirli alla tera arida e polverosa.
Come può tanto colore sfinirsi così nella desolazione delle montagne?
Puerto de la Cruz non esiste. Se lo inventa il viaggiatore perché il mare là sotto è troppo grande e troppo selvaggio per non cercare un riparo tra la calma delle piccole case bianche.
Sembra Lilliput, paese in miniatura appoggiato sulle pietre arrotondate dal mare.
Puerto de la Cruz esiste solo per dividere il mondo in due, di qua il silenzio della baia, di là l’urlo delle onde, di qua la vita dolce e rumorosa solo del pallone calciato dal bimbo, di là il frastuono di un’epoca che non riconosco come mia.
Eppure, anche se non esiste, Puerto de la Cruz sta lì, sulla punta estrema di un’isola estrema, dentro un mare estremo, che solo chi ha il coraggio di non guardarsi indietro può scoprire
Sono le scene di quotidiano oceano quelle che ti rimangono più impresse di Puerto de la Cruz. Panni stesi al sole che sventolano come bandiere di vita, sorvegliati dal faro guardiano della Punta de Jandia, arbitro delle onde che si rincorrono spruzzando gocce di sale sulla pelle. Come sempre il rumore della natura si mischia al silenzio dei corpi. Scene di piccoli elementi da ricomporre nella memoria, per ritrovarsi.
E’ semplicemente l’oceano, quello che viene incontro al viaggiatore alla Punta de Jandìa. Con le sue onde bianche lo raggiunge ovunque egli sia, provenendo dal centro sconosciuto del mondo, laggù dove in un tempo passato c’era Atlantide. Vanno a scontrarsi, le onde bianche, con la spiaggia nera, lava scesa lentamente fin lì da qualche vulcano scomparso, sbriciolata, allisciata e corrosa dal vento e dal mare e ora rimasta a formare cerchi concentrici di colore come quelli disegnati da un sasso lanciato nell’acqua
Il viaggiatore è infinitamente piccolo, sperduto dentro la Costa de sotavento, così come la spiaggia attorno è inifinitamente grande. Camminarci è come stare su un foglio di carta, dove i passi sono la scrittura della memoria. Tracciano segni che si intrecciato tra loro come le vie dei canti dell’altra parte del mondo. Perché in fondo non c’è nel mondo una parte o l’altra, ma solo le piste del sogno, Messe insieme formano un unico labirinto di ricordi, infinitamente piccolo per il mondo, infinitamente grande per noi
Chissà perché in certi posti non si può non sentirsi legati per sempre a chi li vive con noi. Sono i posti in cui impariamo a condividere quello che sentiamo, dove capiamo che il vento, il rumore del mare, quello che la marea lascia ai nostri piedi, non sono lì per noi soli, né per noi “da soli”, e anche se lo siamo davvero da soli, sappiamo che esserci in quel preciso momento e in quel preciso punto del mondo, sarà esserci stato per sempre e ovunque.
Così è alla Costa de sotavento a Fuerteventura
Cammina e cammina si arriva dove nasce il vento, dove lo sfinimento diventa gioia.
Dove ci si sente come quel piccolo granello di sabbia, eppure si sfida il mare.